What if God was one of us? E se Dio fosse uno di noi? Stai lì, ti guardi attorno e non sei il primo a dubitarne, né sarai l’ultimo. Un Dio relativo, del quale non sappiamo nulla e che ancora meno conosce di noi. Ti adoperi, ti affanni a rincorrerne le Leggi, perché sia sopita anche solo una stilla della colpa – viscosa e soffocante – con cui convivi da sempre. E Lui non poteva immaginare in quale ingestibile vicenda si stesse impelagando creando gli uomini: assolutamente incapaci di intendere la necessità naturale, sempre pronti a chiedere, a pregare, che è un rimedio splendido per addossarGli le responsabilità del Male più che del Bene – il secondo son bravi tutti a farlo –. Far girare l’universo dev’essere faccenda da garantire ben più di un’emicrania. Prima di tutto, procurare il numero previsto di morti: difficile essere simpatico, se sei quello che ammazza la gente, hai un bel dire che sei pure quello che la fa venire al mondo. Eccolo, che scende per le strade di cattivo umore, pistola in mano, a smaltire il lavoro accumulato.
Poi c’è la questione di non poter comunicare direttamente con l’umanità: non che non ci siano precedenti illustri di dialoghi tra uomini e il Verbo; vero è, però, che questi prescelti o fanno una brutta fine, passando per folli, oppure si stancano del compito profetico che non hanno mai chiesto di svolgere e smettono di ascoltare, come sta facendo Schwartzman. E non potendo parlare loro, vien pure fuori che si fanno interpreti autonomi delle poche parole che hanno sentito dall’Alto, se le tramandano e le stropicciano, le stiracchiano, le ribaltano, sia per convenienza che per accidia che per paura dell’eterno tormento. E le contraddizioni si moltiplicano, l’eccessiva aderenza ai princìpi formali diventa una trivella che apre trafori da cui perde il buonsenso. Com’è capitato al golem disorientato che è così zelante con Epstein, suo Signore e Creatore, che non riesce ad agire, schiacciato dal peso delle scelte. Ce n’è abbastanza da far perdere la fede, un fenomeno sempre più frequente, di questi tempi. E Dio lo sa, se non si preoccupa di tutelare il proprio business, è tagliato fuori, per questo sta entrando, con il piglio arrogante del capitalista di successo, nella sede della più importante agenzia pubblicitaria. Sopravvive un sistema di premi e punizioni scolpito nella certezza – peraltro, mai confortata – che a suprema devozione risponda concessione dei desideri, se non terreni, certamente empirei. Ed ecco i due criceti che alternano la preghiera sottomessa alla rassegnazione, nel tentativo di far tornare il loro Dio, l’uomo che s’è scordato di loro e del loro cibo. Sì, perché a Dio potrebbe anche non importare affatto delle vicende umane, no? Se fosse, poniamo, un enorme pollo felice della sua ciotola piena e della stia pulita. Enormi disagi che partecipano del nucleo archetipico delle civiltà e che compongono lo sfondo per la passerella di antieroi di questi racconti. Sono ebrei, vittime designate della propria feroce ironia prima ancora che della Storia, la stessa che si compirà al realizzarsi della loro dottrina. E il newyorchese Shalom Auslander utilizza con sapienza gli strumenti ironici più affilati per stendere queste narrazioni, forzando un sorriso, anche una risata, ma amari. Nessuna sensazione che A Dio spiacendo (Beware of God il titolo originale) ci abbia cambiato – o salvato – l’esistenza; almeno finché un racconto e poi un altro si affacceranno dalla memoria portandosi in braccio il sospetto che faranno a lungo parte di noi. Forse lo erano sempre stati.
Shalom Auslander
A Dio spiacendo
Guanda, € 15,00
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