martedì 5 aprile 2011

recensione: Azzurro tenebra

Arp e il Vecio stanno ingobbiti come bestie ferite, a bordo del prato. Si scambiano battute dagli animi desolati: l’età li ha presi, la malinconia c’era già da sempre ma adesso ha fatto piazza pulita di ogni illusione, di ogni giustizia. Sullo sfondo una figura in tuta si agita guizzante e solitaria, si lascia osservare mentre fatica. I tre sono parte, ognuno con le proprie mostrine sulla divisa, dello stesso esercito, la campagna è il Mondiale di calcio. Arp trasuda whisky e letteratura, una sigaretta via l’altra, va predicando la disfatta imminente: Azzurri compagine di molli, le tante, troppe aspettative dopo la grandiosa prestazione di quattro anni prima assordano già con il tonfo dell’ineluttabile caduta, e dire che il girone presenta almeno una squadra cui il calcio è materia organica ignota. Se vi stanno fischiando le orecchie con un ritorno di vuvuzelas e quel disturbo all’altezza dello stomaco – ormai vecchio di un’estate – torna a ricordarvi Pepe che si mangia un gol fatto all’ultimo secondo, tirate il freno a mano, colleghi drogati di fútbol. Non siamo in Sudafrica e non è il 2010.

Quando la figura alta ed elastica interrompe il suo allenamento, eccoli già diventati i nostri eroi: Giovanni Arpino, Enzo Bearzot e Giacinto Facchetti. Arp si appresta ad attraversare il Campionato del Mondo con l’amaro sapore di chi si costringe ad un guado melmoso e inutile, disperato. E ben sa che sarà così per tutta la spedizione italica e italiota. La Germania del ’74 è un capriccioso unguento – talvolta malefico, più spesso velenoso – misto di umidità apripista dei reumi e cibi dalla composizione impenetrabile, solitudine e saudade e folle emigranti speranzose perché senza speranza. Immergendosi in questa alchimia, la Nazionale si presenta ostentando senza pudori la grandeur di chi quattro anni fa si è arreso solo a O Rey Pelé e da due anni spadroneggia in lungo e in largo senza che San Dino subisca mai. Ma il momento in cui undici calcano l’erba e devono farle andare per davvero arriva. Dico, le gambe. E se quelle non vanno, si danno solo due opzionali fenomeni: o le tiri fuori, o le tirerai tutte fuori. Dico, le palle.
I tre incontri sono come tre schiaffi – letterari ma violenti – che valgono ognuno da solo intere bibliografie di certi scribacchini celebrati con allori e incensi. Tre utopie del romanzo, sue protagoniste e ugualmente sue meravigliose aliene. Arp e il fido scudiero Bibì fremono, si indignano, si consolano con il liquore di chi le ha viste tutte e sapeva già eppure non cedono alla rassegnazione, insomma: vivono le partite. Che segnano prima, contro Haiti, una presa di coscienza definitiva però ancora illusa – specialità tipica peninsulare. Poi, l’Argentina è la terribile constatazione di aver avuto ragione e di poter solo far finta che. Polonia, infine, il mesto stordimento di chi vede frantumarsi un sogno in cui non credeva, eppure. Sostituissimo in ordine sparso i nomi di Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia, dite, avremmo le nostre utopie? Fattostà che Arp si invischia con l’evento drammatico proprio per quel cinismo con cui voleva smarcarsene. Vorrebbe parlare di pallone solo quando detta gli articoli che valgon la pecunia, ma non riesce ad intrallazzare filosofia se non intorno al cuoio da calciare, e condire quest’intruglio con l’alcol fa soltanto – fosse poco – sentire più amici.
Con alle spalle un’Italia in cui fare ritorno senza alcuna nostalgia per la morale che la tiene poco dignitosamente in piedi. Fischiano ancora le orecchie?

Giovanni Arpino
Azzurro tenebra
BUR
€ 9,80

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